di Giuseppe Sciarra
Nanni Moretti non è un regista simpatico, molti lo detestano e lui non fa nulla per compiacere gli altri e in questo c’è sicuramente qualcosa di ammirevole perché è fedele a se stesso e alla sua personalità nel bene e nel male. Che ci sia simpatico o no, non si può però negare che sia un grandissimo regista e questo documentario ne è sicuramente la dimostrazione. In quest’ultimi anni il numero di documentari è decisamente aumentato e chissà se sia merito anche delle piattaforme (Netflix, Amazon) dove questo genere cinematografico, da alcuni a torto bistrattato, sta vivendo la sua età dell’oro. Fare un documentario apparentemente è più semplice di realizzare un’opera di fiction perché solitamente la troupe è più ridotta e ci sono meno beghe da sbrogliare durante le riprese. In realtà questa è una grande frottola e lo dico per esperienza personale. Indagare un tema o più temi attraverso delle interviste ha bisogno non solo di un grande lavoro di regia ma soprattutto di un grande lavoro giornalistico che implica tempo e fatica; in più non tutti i registi sono anche giornalisti. Questo fattore aumenta di molto il rischio della realizzazione di un documentario di valore e l’effettiva resa del prodotto che si sta realizzando, perché se un regista fa delle interviste scialbe il documentario va a puttane!
In Santiago ho visto in Nanni Moretti non solo un regista meraviglioso ma anche un giornalista pazzesco. La scelta di far sentire la sua voce nelle interviste, la sua intensa interazione con gli intervistati e la sua inaspettata entrata in campo durante una delle interviste quando un intervistato si indispettisce per le sue domande di parte mettono in evidenza tutta la genialità e l’estro fuori dagli schemi di un autore italiano che ama il cinema sperimentale e di conseguenza infrangere le regole cinematografiche – a cui secondo me Enrico Ghezzi ha attinto non poco per il suo Fuori Orario. Detto questo Santiago è una toccante e coraggiosa opera sugli immigrati cileni in fuga in Italia in seguito al sanguinoso golpe di Pinochet in Cile nel 1973. Le testimonianze dei sopravvissuti a una carneficina che si presume abbia causato più di tremila morti (ma c’è chi sostiene siano di più) non può lasciare indifferenti perché Moretti non ha censurato nulla. Mostra le lacrime, il dolore, l’amarezza senza spettacolarizzare la sofferenza e senza interpretarla con la nostra ingombrante (e spesso falsa) pietas ed è qui il suo grande punto di forza: la differenza che intercorre tra una regia come tante e quella di un autore vero che porta avanti con personalità e sensibilità senza ricorrere a stratagemmi una verità fatta di dolore, un dolore che non ha bisogno di orpelli ma di essere mostrato per quello che è. Chapeau.
(26 gennaio 2022)
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