di Alessandro Paesano
Black Box (t.l. Scatola nera | Germania, 2022) di Asli Özge, tedesca d’adozione, nata nel 1975 a Istanbul, è il secondo film in programma alla IV edizione del Festival del Cinema Tedesco di Roma.
Il film è ambientato in un condominio della città di Berlino nel quale la presenza di un agente immobiliare che deve vendere gli appartamenti nei quali diverse famiglie vivono in affitto e che fa istallare un ufficio prefabbricato nel cortile del palazzo suscita malumori e sospetti. Il condominio ha bisogno di manutenzione, le mura del cortile sembrano sgretolarsi, i diversi appartamenti sono abitati da persone di diversa estrazione, sociale e geografica, c’è un insegnante liceale, una famiglia con un bambino piccolo, migranti di prima e seconda generazione. Qualche persona estranea al dominio che vive nei locali di servizio del soffitto. Quando la polizia costringe tutti e tutte nell’edificio per una non meglio chiarita emergenza per motivi di sicurezza la tensione già alta tra le persone del condominio aumenta visibilmente.
Il film da un lato è una chiara e precisa metafora della condizione umana contemporanea, secondo una lettura iniziata una ventina d’anni fa dai film e dai libri di Michael Moore, oggi resa ancora più evidente dal “ritorno alla normalità” dopo le restrizioni della libertà personale durante la pandemia da covid 19.
Ma il film è più di una metafora e ci presenta dei personaggi veri, ognuno con una personalità piena, una individualità nella quale il pubblico può identificarsi o riconoscere persone che conosce. Qualunque sia la condizione sociale dei personaggi ne risulta una umanità fragile, confusa, ferita, sospettosa, paranoica, incline alla violenza di reazione e quando, durante una riunione di condominio, uno dei personaggi sembra trovare tramite l’autoironia un mezzo di mediazione per tutti i conflitti la violenza fisica (un altro condomino o lo aggredisce mordendogli un orecchio) prevale e disinnesca il ritrovato equilibrio. ll film che all’ultima Festa del cinema di Roma ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura) mostra l’isolamento emotivo dei personaggi, l’atomizzazione lavorativa ed esistenziale di persone che, pur vivendo insieme, sembrano essere incapaci di costruire relazioni affettive stabili e dove la protesta è di esclusivo appannaggio delle persone migranti rifugiate in Europa perché nei paesi di origine, la federazione Russia, il Libano, le restrizioni della libertà rende loro impossibile viverci. Restrizioni che adesso che toccano anche la vecchia Europa trovano la popolazione totalmente incapace di reagire.
Tra petizioni da firmare, ratti che circolano nel cortile, schieramenti tra condomini e proteste il film avviluppa il pubblico in una tensione crescente costruita sul sospetto, sulla delazione, e sul sopruso mostrando come l’unica possibilità che ci rimane come esseri umani è quella di essere testimoni incapaci di fare altro oltre a sgranare gli occhi e barcollare per la mancanza di certezze, di punti di riferimento, di rispetto e di riconoscimento di una umanità che dovrebbe essere tratto comune di solidarietà e diventa invece strumento di discriminazione e sopruso.
Un film che inchioda il pubblico alla responsabilità collettiva e individuale di rimanere vigili e resistere a una deriva autoritaria che sta spostando il mondo sempre più verso una paranoia complottista dove la verità è sempre meno evidente (ma questo Karl Popper lo diceva già il secolo scorso) e sempre creduta.
Un film indimenticabile che non ci capacitiamo non abbia trovato una distribuzione italiana. Un altro fiore all’occhiello di un Festival pieno di sorprese.
(17 marzo 2024)
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