di E.T.
Chiunque abbia letto Haruki Murakami ma anche la più semplice – solo in apparenza – Banana Yoshimoto, senza per forza avere deciso di passare per la lettura di “Strangers” di Taichi Yamada, che ho letto nella traduzione inglese non potendo culturalmente accedere all’originale giapponese – da cui il film – senza passare dalla percezione orientale delle entità che in Occidente definiamo fantasmi – tra il terrorizzato e l’incredulo – e senza scomodare i concetti buddisti di non sostanzialità (uno stato in cui la materia non è più presente, essendo morto il corpo: uno stato in cui l’energia vitale del de cuius [sic] rimane intatta, latente, in uno stato parallelo, in attesa delle condizioni adatte al suo ritorno dentro un corpo fisico), diciamo che Estranei è un film dove i fantasmi siamo noi, che abbiamo così tanto bisogno di andare a cercare le nostre risposte da evocare i ricordi in modo così potente da costringerci a cavalcarli pensando di governarli salvo poi descriverli come fantasmi quando cominciamo a perderne quello che chiamavamo il controllo.
Fa sorridere, o sganasciare, dipende da come ci si trova, sentire parlare di Estranei come di un ghost movie che non è un ghost movie, e mica solo perché tocca sapere di cosa si parla, ma soprattutto perché si dovrebbe considerare Estranei come la cronaca postuma di una generazione che non c’è più; di un lungo momento sociale nel quale essere un uomo che amava un uomo, più che un maschio che faceva sesso con maschi, significava essere un fantasma e dovere fare i conti col fantasma di se stesso; significava doversi immaginare in procinto di contrarre una malattia incurabile ad ogni rapporto sessuale; significava assumersi il rischio di essere socialmente bannati qualora si fosse dichiarato di amare un uomo (o una donna) dentro una coppia monosessuale al di fuori di pochi amici fidati. Estranei restituisce tutto questo disagio sociale nella maniera più minuziosa possibile, come se fosse raccontato per l’appunto da fantasmi o da estranei ai quali prestiamo l’attenzione appena necessaria tanto prima o poi scenderemo dalla metro, dal treno, all’autobus e non li vedremo più. E proprio per questo (solo apparente) distacco, ne esce un racconto tanto più terribile, regalato a Estranei, e tragicamente vero.
C’è un quindicennio di disperazione riassunto in due semplici frasi del protagonista e della madre-fantasma di lui: “Nessuno ti tratta male per questo?”, dice lei alla confessione del figlio sulla propria omosessualità e poi c’è quella, più virilmente trattata, di Adam sulla possibilità di un rapporto completo: “Ho sempre creduto che avrei potuto morire facendolo”. Le battute precise non sono quelle, ma pochi si ricordano esattamente di un periodo storico in cui improvvisamente qualcuno spariva e sapevi che l’HIV se l’era portato via solo a funerali avvenuti. Le imprecisioni viaggiano a gruppi numerosi, e la fortuna di avere ciceroni da social è acquisizione molto recente di un mondo che pensa di sapere tutto.
Estranei è un cazzotto nei denti ed è di una tale potenza che è assai difficile trattenere le lacrime; mi ci è voluto quasi un mese prima di riuscire a scriverne (e avrei potuto farne a meno senza che nessuno si strappasse le vesti, se c’è qualcosa che non mi manca è l’avere contezza). I riferimenti alla questione fantasmi legati all’opera di Taichi Yamada per forza di cose avvinghiata alla cultura giapponese sono solo intelligentemente sfiorati perché non ne sarebbe stata possibile una trasposizione accettabile nel cinema occidentale – e infatti nessuno ha ancora pensato a un film da “L’Assassinio del Commendatore” di Murakami che di fantasmi è zeppo.
Di certo la profondità di Estranei sfugge a chi non ha vissuto, fortunatamente, quel periodo storico che nella bella trasposizione cinematografica di Andrew Haigh è alleggerito da una scelta musicale ruffianissima con tanti brani dell’epoca che sono diventati icone. Altrettanto certamente ciò che si è letto dei sempre troppo numerosi e profondi conoscitori del Cinema, così capaci nel loro argomentare la materia che maneggiano e così calati nella cultura che appartiene solo a loro da essere costretti a fare, per vivere, un altro mestiere che col cinema non c’entra niente – secondo la regola non scritta che più sono scienziati al bar meno scienza masticano nel quotidiano – non ha conoscenza sufficiente del momento storico e tratta l’argomento con la freddezza intellettuale di colui che sa perché ha visto. Spiace deluderli, non hanno visto niente. Prima, durante o dopo il film (che resta imperdibile).
(24 marzo 2024)
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